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16 Giu 2021

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16 Giu 2024

«MERDRE!» – Tirare un filo per districare l’entanglement del Teatro Valle Occupato: genealogie, archivi, narrazioni

E se a qualcuno verrà in mente un giorno,
di fare la mappa di questo itinerario;
di ripercorrere i luoghi, di esaminare tracce,
mi auguro che sarà solo
per trovare un nuovo inizio.
Antonio Neiwiller,
Per un teatro clandestino, dedicato a T. Kantor
(dal programma di sala di L’altro sguardo, 1993)

 

L’ultimo numero di «merdre!» (n. 4, 2021), supplemento online della rivista «Teatro e Storia», intitolato Teatri possibili e spazi occupati. Prime voci per un osservatorio, «propone la prima tappa di un osservatorio sugli spazi occupati e la ricerca teatrale, che mira a sconfinare sia in senso cronologico che geografico»(p. 1). 
All’interno, accanto a un intervento sull’Angelo Mai di Giorgina Pi e un’intervista a Daniele Parisi e Ivan Talarico (Sgombro) sul Nuovo Cinema Palazzo di Simona Silvestri, un articolo di approfondimento sul Teatro Valle Occupato, a dieci anni dalla sua occupazione, di Isabella Pinto, Laura Pizzirani, Francesca Romana Di Santo

Ringraziamo la redazione di «merdre!», «Teatro e Storia», e Francesca Romana Rietti

 

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Tirare un filo per districare l’entanglement del Teatro Valle Occupato: genealogie, archivi, narrazioni
di Isabella Pinto, Laura Pizzirani, Francesca Romana Di Santo

In Francia il 2021, secondo anno di pandemia, si è aperto con una serie impressionante di occupazioni: una mobilitazione di massa che ha coinvolto artist_ e maestranze, sotto la guida di un forte sindacato. A partire dall’Odéon di Parigi, in ogni città francese c’è un teatro occupato; qui, le residenze artistiche e gli atelier per ragazz_ previsti dalle direzioni – che hanno continuato a svolgersi anche durante i mesi di lockdown – vivono parallelamente alla vita e all’attività politica dei/delle occupanti, seppur con qualche tensione, più o meno importante, dovuta, per dirla con Marx, allo scontro secolare tra capitale e forza lavoro. Lo statuto dei lavorat_ dello spettacolo francesi è il più avanzato d’Europa, ed è quello a cui si fa riferimento quando si parla di “reddito di intermittenza”, ma è anche quello messo continuamente in discussione dalle politiche neoliberiste d’Oltralpe, soprattutto negli ultimi anni. Prima della crisi sanitaria, Macron ha avviato una radicale riforma delle pensioni, che si è trasformata nel detonatore più importante dell’attuale rivolta francese, divenendo punto di unione generalizzato. E tuttavia va notato come, intorno ai teatri si siano riuniti tutt_ quei lavorat_ intermittenti, senza contratto, precari che non hanno un luogo fisico da poter occupare.

Notizie che giungono a ridosso di una ripresa della pratica di occupazione avvenuta anche in Italia, come testimoniano le occupazioni del Mercadante di Napoli, del Piccolo di Milano e del Silvano Toti Globe Theatre di Roma. Avvenimenti da salutare con gioia, perché arricchiscono il paesaggio organizzativo e conflittuale che si articola attorno ai lavorat* della cultura – e in special modo ai lavorat_ dello spettacolo dal vivo – e i loro luoghi di ri/produzione. D’altro canto sono avvenimenti che accogliamo con favore perché incoraggiano la ripresa di una questione spinosa, e che può essere sintetizzata con la seguente domanda: che fine ha fatto il Teatro Valle Occupato (TVO)? Cominciamo col dire che la struttura del Teatro Valle, così come la sua gestione, è tornata in mano dello Stato l’11 agosto del 2014, e a tutt’oggi fa parte del Teatro di Roma, con una programmazione visibile sui siti web preposti. Non ci interessa in questa sede entrare nel merito delle scelte del Teatro di Roma. Quello che qui proviamo a fare è cercare di tirare un primo filo dalla matassa di una delle esperienze culturali europee più innovative e allo stesso tempo più controverse degli ultimi anni, proponendo alcune riflessioni, parziali, a firma di tre donne che di quell’esperienza hanno fatto parte e che, in modi più o meno fantasmatici, continua a far parte di loro.

Nel tempo che li separa dalla data spartiacque dell’11 agosto 2014, gli ex-occupanti del TVO hanno dovuto affrontare diverse difficoltà, molte delle quali sono tuttora irrisolte. È formalmente in piedi la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, con il suo capitale sociale, le sue opere d’arte e brandelli di quella collettività aperta ed eterogenea che per tre anni si è presa cura del teatro più antico di Roma.
Cogliendo l’occasione del decennale dell’occupazione, 14 giugno 2011-14 giugno 2021, vorremmo però iniziare questa storia con il ricordo della prima giornata dentro il Teatro Valle. Lì, a notte fonda, dopo la prima “serata flusso” – come chiamavamo le serate che vedevano alternarsi sul palco brevi interventi di artist* con stili, di generazioni e per gusti diversi – andò in scena una lunga ed estenuante discussione per decidere se fosse giusto o meno far timbrare il cartellino ai lavoratori del Teatro Valle. Con il totale definanziamento e la conseguente chiusura dell’ETI (Ente Teatrale Italiano) da parte del quarto governo Berlusconi, il Teatro Valle aveva concluso la sua programmazione e andava verso un destino incerto, in cui aleggiava anche una possibile privatizzazione. Nel momento in cui il Teatro Valle venne occupato, nonostante fosse già chiuso al pubblico, contemplava ancora diversi lavoratori che per alcuni mesi avrebbero dovuto svolgere mansioni tecniche e amministrative.

Sulla scia delle invenzioni dei movimenti studenteschi, culturali e sociali del ciclo 2008-2012, con cui alcuni gruppi di lavorat* dello spettacolo erano in stretta connessione, al TVO si decise che sì, potevano entrare e timbrare, imprimendo così un’evoluzione nella pratica delle occupazioni, divenendo alternativa rispetto al modello del “centro sociale”, seppur ad esso genealogicamente connesso. D’altro canto, grazie alla riattivazione della genealogia delle cantine romane degli anni ‘70, dei teatri e degli spazi culturali occupati degli anni ’90 (come, tra gli altri, il Teatro Polivalente Occupato di Bologna) e degli anni ‘00 (come, tra gli altri, il Sale Docks di Venezia, il Rialto, l’Angelo Mai e l’Ex Cinema Palazzo di Roma) – che hanno offerto a compagnie e artist_ emergenti, senza aiuti statali, spazi per prove, residenze e spettacoli, sostituendosi in molti casi a enti e teatri pubblici –, il prototipo del TVO andava ampliando l’arcipelago delle pratiche di autogestione e di autogoverno – a fianco delle palestre popolari, delle mense popolari, delle case delle donne, delle occupazioni abitative, dei centri sociali, delle fabbriche occupate, dei cinema occupati –, raccogliendo e sviluppando l’inedito spazio politico emerso con la vittoria del Referendum Popolare dell’11 e 12 giugno 2011 – che sanciva l’acqua pubblica come “Bene Comune”.
Un’inedita piattaforma di dialogo e costruzione, resa possibile anche dalla particolare soggettività addensata attorno al TVO, e composta sia da lavorator_ dello spettacolo, cittadin_, attivist_ appartenenti al variegato mondo dei movimenti extraparlamentari, delle associazioni culturali, di base, e di alcuni sindacati confederali e autonomi, che da lavorat_ dello spettacolo e della cultura, student_ e cittadin_ di diverse provenienze accomunati dal non aver preso precedentemente parte ad alcuna forma di politica attiva, ma ai quali stava a cuore la tutela del teatro, il lavoro dei teatranti e l’“agorà” – spazio non solo di confronto, ma anche di decisione, nato fin dai primi giorni di attività del TVO, e aperto a tutta la cittadinanza. La fusione di queste due anime, entrambe già multispecie, ha dato vita a un inedito precedente su come approcciare uno spazio culturale occupato, croce e delizia di una vera e propria esperienza di “democrazia sorgiva”. Un’esperienza che ha impresso diverse differenze con altre modalità di attivismo politico, come racconta, ad esempio, lo stile di negoziazione con le istituzioni, le cosiddette “trattative”. Per il TVO la trattativa doveva essere pubblica, e quindi partecipata da ampie delegazioni che avevano il compito di mostrare cosa accade realmente quando ci si interfaccia con uomini e donne investiti dei poteri dello Stato.

Ma veniamo all’oggi e alla domanda di apertura: cosa rimane del TVO nello spazio pubblico? Di certo, nonostante le riunioni, assemblee, laboratori, spettacoli, azioni, tentativi di rioccupazione, avvenute dall’11 agosto del 2014 in poi, ad essere sotto gli occhi di tutti è un grande vuoto. Un vuoto lasciato certamente dallo sgombero/uscita, ma che è tale anche a causa dell’assenza di una narrazione da parte del TVO stesso. In questo vuoto ha preso piede una vera e propria “narrazione tossica”, complessa e stratificata, capace di sedimentarsi a causa del malcontento di quanti vedevano in quella nuova esperienza culturale, politica e sociale un pericolo, ma anche a causa di chi ne è rimasto deluso per il suo epilogo poco epico, e di chi ama parlare solo per sentito dire. Una narrazione fatta da affermazioni come “non avete fatto la resistenza esemplare”, “vi siete intascati i soldi della Fondazione”, “all’inizio vi occupavate di arte ma poi vi siete troppo politicizzati”, per arrivare all’accusa di pensare solo a trovare contatti e occasioni di lavoro per sé stessi, dimenticandosi del “Bene Comune”. Quindi, proprio come i somari, ci siamo trovati nella condizione ibrida e indefinibile di una sorta di incrocio: sempre troppo asini per i cavalli e sempre troppo cavalli per gli asini. Una narrazione tossica che ha avuto la funzione di riempire un vuoto lasciato dalla non emersione della voce cristallina e autorevole di chi, quell’esperienza liminale, l’aveva vissuta in prima persona – mettendo in evidenza l’incapacità di restituire ai posteri l’immagine di un miracolo della politica.

Eppure, un miracolo, al TVO, c’è stato, seppur certamente strano – potente per alcuni versi e devastante per altri –, generato dal condividere e costruire pratiche artistiche e politiche unendo persone radicalmente diverse tra loro, e abitando così la turbolenta e torbida frontiera che smargina il confine tra immaginazione e manutenzione, conflitto e cura, produzione e riproduzione. Si pensi al mantenimento di uno spazio come il Valle, un teatro del ‘700, divenuto vera e propria prassi partecipativa, a fronte delle ditte di pulizie che continuano a lavorare nei teatri francesi occupati. Si pensi a un luogo aperto alla cittadinanza h24, 7 giorni su 7. Si pensi ai tavoli di progettazione artistica partecipata, capaci di immaginare e attuare inediti accordi economici con artisti e tecnici, massima accessibilità per il pubblico, lunghe teniture degli spettacoli, per favorire progettualità di ampio respiro. Si pensi alle proposte radicali di riforma della SIAE; alla fucina multiforme dell’“autoformazione” – con la Nave Scuola per le maestranze di palcoscenico, con il teatro ragazzi, con i laboratori aperti di musica, danza, recitazione, scrittura, regia, filosofia, cinema, economia, storia dell’arte, con la palestra dell’attore, con lo studio e la ricerca sulle nuove drammaturgie, la formazione per gli organizzator* teatrali e culturali. Si pensi alla produzione di uno spettacolo ambizioso come Il Macello di Giobbe; al Festival Da Mieli al Queer – con i suoi spettacoli, assemblee, le sue slut walks –; al Tutto il nostro Folle Amore, al CombatTANGO, a Orazio, alle residenze per artist*, a progetti “impossibili” come i Centocelli, ai numerosi flash mob e alle invasioni di strada come il Ferragosto – per tre anni, il 15 agosto, la via antistante il Teatro Valle ospitava una vera e propria festa di rione –; ai concerti e agli spettacoli di artist_ sconosciuti così come di artist_ di fama mondiale; alle visite guidate del teatro. Si pensi alla sperimentazione di direzioni artistiche e curatele d’ensemble, dove compagnie o singoli artist* – improrogabilmente non appartenenti alla soggettività stabile del TVO – portavano una loro visione di teatro avendo a disposizione il Teatro Valle per un’intera settimana, e con cui tutta l’assemblea degli occupanti si confrontava, sperimentando possibili modelli per una direzione artistica e organizzativa del teatro realmente partecipata. Tutto era possibile, perché anche l’errore era concesso e in certi casi provocato.
Si pensi poi alle miriadi di assemblee, incontri, corsi, manifestazioni organizzati con lavorat* precari, sindacati, collettivi studenteschi, esponenti della politica istituzionale, migranti, insegnanti, professori universitari, terremotati – ovvero i Commons Café, la Costituente dei Beni Comuni, l’Assemblea della Comune. Si pensi ai tanti fronti di lotta aperti dentro e fuori il comparto della cultura, il sostegno attivo alla No Tav e alle numerose realtà e soggettività sparse su tutto il territorio nazionale e internazionale in lotta per i Beni Comuni – tra cui la rete in/formale delle occupazioni teatrali e culturali sorte tra il 2011-2014, di cui il TVO è stato matrice e baricentro.
Va altresì ricordato che, dopo un lungo lavoro di confronto, assemblee, desiderata, testi emendabili via internet e la raccolta del capitale sociale ad azionariato diffuso e popolare, è nato lo Statuto della prima Fondazione “Bene Comune”. Una Fondazione immaginata non sul peso economico dei suoi soci, ma sulla partecipazione attiva e la cura di ciascun*, a cui hanno preso parte migliaia di cittadin_ e artist_. Uno strumento pensato per offrire una risposta costruttiva e alternativa sia al modello pubblico che a quello privato, entrambi sempre più arroccati nella difesa di vecchie prassi e antichi privilegi.

Unendo arte e politica, in quei tre anni il TVO ha rivoluzionato abitudini e modi di pensare, incarnando un tentativo di generare cultura tra diversi, condividendo divertimento, socialità, saperi, lutti, angosce, urla, rotture, creatività. Una modalità che ha provato a sopravvivere anche dopo l’11 agosto 2014, articolandosi in diversi progetti, tra cui la CarovanaValle, Rabbia, Questo non è un corso di scrittura, Tanz Zeit. Progetti che, tuttavia, in assenza di un luogo fisico agente come quello del Teatro Valle, non hanno trovato rifugio stabile per continuare a prosperare secondo l’aritmia dei Beni Comuni, finendo così per interrompersi, esaurirsi o trasformarsi in altro.

D’altro canto, rispondere alla domanda iniziale vuol dire sapere che il racconto che si fa di una data esperienza ha il potere di stabilire ciò che è successo. Un racconto che più è univoco più è potente. Ma il TVO, per come lo abbiamo sognato in quei tre anni, non aveva posto le condizioni per questa unica, squillante, epica voce. Le scelte fatte più o meno consapevolmente, ci hanno portato in direzione opposta, forti della convinzione che tutti i corpi contano. Nonostante ciò, se è vero che, a partire dal’11 agosto 2014, l’Ex Teatro Valle Occupato ha subito l’invisibilizzazione attiva della narrazione tossica, è anche vero che esso stesso ha attivato una difficile e logorante discussione interna, minando nel tempo la fiducia reciproca, la capacità di azione e narrazione, producendo senso di colpa collettivo, rabbia, e timore di parlare come diverse singolarità a nome di un’esperienza così complessa. Un’impasse che oggi, a sette anni dalla fine dell’occupazione, crediamo possa sciogliersi positivamente solo mostrando come il patrimonio del Teatro Valle Occupato si componga non soltanto dei soldi della Fondazione Teatro Valle Bene Comune e del numero di like sulle sue pagine social, ma anche della molteplicità dei suoi resti, in altre parole del suo archivio. Nella grammatica delle “utopie concrete”, per archivio si intendono sia le innovazioni prodotte nel tempo – materiali e immateriali – sia i corpi di chi del Teatro Valle si è preso cura, l’ha vissuto, l’ha reso possibile. Si apre così una questione che lega a doppio filo archivio, lavoro di cura(tela) e soggettività, dove se l’archivio è sia non-umano che umano, la particolare collettività che lì si era sedimentata si configura come non- identitaria, conflittuale, desiderante, eterogenea, intimamente intrecciata con l’edificio storico del Teatro Valle. Questione che si aggiunge al problema di come costruire il processo collettivo che questo archivio dovrà sostenerlo, reificarlo, incarnarlo, e su cui gli/le ex-occupanti si stanno interrogando ormai da anni.
Ciò che sta emergendo, quindi, è un vero e proprio desiderio costituente, sostanziato nell’immaginare (e iniziare a progettare) un archivio capace di dare strumenti per compostare anime diverse. Di conseguenza, la questione non è solamente capire dove collocare fisicamente l’eredità (im)materiale del TVO, ma anche dare vita a una “pratica dell’archiviare” culturale e politica. Siamo infatti alla ricerca di uno spazio e di una pratica coerenti con la prospettiva – forse questa sì desueta – dei Beni Comuni, il che vuol dire, ad esempio, aver bisogno di un luogo di consultazione dei materiali quanto più accessibile e fruibile possibile, un luogo in cui il lavoro materiale e simbolico possa avere una qualche forma di retribuzione, un luogo in cui poter trasmettere attivamente un’esperienza che, grazie anche alle diverse riprese della pratica di occupazione dei teatri a livello europeo, torna ciclicamente di grande attualità.

E come un cane che si morde la coda, la questione dell’archivio porta con sé, di nuovo, la necessità di un’altra narrazione dell’esperienza del TVO. Una narrazione che mal sopporta le pratiche e le strutture narrative con cui tradizionalmente si sono raccontate le “giuste” esperienze trasformative e rivoluzionarie, a partire dal fatto che queste narrazioni scontano il prezzo di essere chiuse dentro dinamiche univoche imposte dal Soggetto Unico della Storia. Secondo questa logica, gli/le ex-occupanti del Teatro Valle sono messi nella posizione di dover pagare lo scotto di una fine non-gloriosa. Questo dà molto da pensare rispetto al bisogno di raccontare seguendo una certa epopea, divenendo un elemento che, anche a causa della conclusione in totale disaccordo di una così complessa vicenda, pone immediatamente il Teatro Valle Occupato in una prospettiva antiepica, similmente a molti eventi della recente storia italiana: dal ‘77, al movimento No Global, passando per gli Anni di Piombo, il movimento della Pantera, i movimenti femministi. E se ripensiamo al racconto di esperienze come quella di Radio Alice, ci rendiamo più facilmente conto che esso non emerge immediatamente dopo l’epilogo, ma c’è bisogno di un tempo di deposito, di distacco, di sedimentazione.

Decantando nel pozzo scuro dell’esperienza, la questione della narrazione è d’altronde strettamente connessa a un certo modo di intendere il dovere della memoria. Una questione che ci piacerebbe affrontare non tanto come un dovere morale – dover musealizzare una vicenda ormai conclusa -, quanto piuttosto come costruzione di uno spazio material-semiotico in grado di accogliere il comune desiderio di trasmissione di un sapere utile per il presente e per il futuro. Per questo motivo vorremmo ragionare di responsabilità della memoria usando strumenti che rendano tutte le persone interessate a questo processo capaci a vicenda di rispondere, unite nell’attività di cura reciproca delle relazioni, segnate talvolta anche dal conflitto, ma non (più) dalla guerra.

Ecco farsi allora strada la necessità di decolonizzare il racconto delle lotte dallo sguardo univoco, patriarcale, eroico, e cercare altrove schemi narrativi e prassi politiche più audaci, più eterogenee, più complesse. Per questo motivo ci stiamo volgendo verso epistemologie che ci aiutino a oltrepassare i binarismi e le dicotomie oppositive, attingendo ai saperi decoloniali, ai femminismi e alla fisica quantistica, ai neomaterialismi postumani, al compost multispecie, facendoci ispirare dai principi di sovrapposizione e non-contraddizione, dalla diffrazione spaziotemporale, dal comportamento queer della materia, dalle storie dei Soggetti Imprevisti, dalla ri/produttività calda, viscida e maleodorante degli scarti, dalla pratica di rinominazione dell’esperienza, essendo questi utili strumenti per dare voce a una soggettività che non ha mai voluto essere omogenea – ma di cui una parte si è certamente stancata di svolgere la sola e invisibile funzione di “togliere le castagne dal fuoco”.

È dunque con questa nuova consapevolezza che desideriamo stimolare una ripresa di discorso, alla ricerca di una polifonia e una polisemia aperte al contributo di molt*, coscienti del fatto che ciascuna/o di noi ha vissuto solo una delle tante storie dell’Ex-Teatro Valle Occupato.

Sei pront* a raccontare la tua storia?
Sei pront* ad ascoltare le storie degl* altr_?

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